martedì 30 agosto 2016

Gli errori da non commettere quando il bambino non vuole regole (da un intervento di Alberto Pellai)

Perché un bambino non vuole regole? Come comportarsi in questi casi?

Il professor Pellai fornisce indicazioni utili dal canale youtube di quimamme.

Di seguito riportiamo un estratto del suo intervento, liberamente riadattato, e, in fondo, il video integrale.

Solitamente un bambino è sregolato per due ragioni: o perché non ha ricevuto regole (e quindi, per forza di cose, non può averne), oppure perché di regole ne ha ricevute troppe; in questo caso, nel giro di pochi minuti gli vengono date "vagonate" di stimoli-informazioni-ordini su cosa deve o non deve fare. Così accade che il bambino non è in grado di prestare attenzione a questa lunga serie di indicazioni e va in tilt.

Un'altra regola importante per educare è, inoltre, predicare bene, ma razzolare ancora meglio. Non c'è modo migliore, per creare confusione nel bambino, che mostrargli che l'adulto non fa quello che gli dice di fare.

Le regole al bambino devono essere spiegate: ti dico di fare, o non fare, questa cosa "perché" ... Serve un motivo che metta il bambino nelle condizioni di sapere il perché di quella regola. Non servono però prediche lunghissime, che otterranno l'effetto opposto. Serve, invece, una spiegazione breve e chiara: "Non camminare scalzo altrimenti rischi di prendere freddo e farti male ai piedi". Punto.

Un'altra cosa che non funziona è fare troppe eccezioni alla regola: se c'è una regola, va bene un deroga, ma quando le deroghe diventano troppo il bambino, intelligentemente, interiorizza l messaggio che ... proprio una regola vera non è! 


domenica 28 agosto 2016

"Oh me! Oh vita!" ... quale sarà il tuo verso? Un messaggio per gli sfiduciati - Educare Narrando

Un'altra perla di Walt Whitman, che forse molti conosceranno perché citata da Robin Williams nel celebre film "L'attimo fuggente". 
Un inno all'esistenza, mai banale per nessuno, mai senza senso, mai inutile. Ciascuno è vivo e questo già basta. Ciascuno può contribuire semplicemente esistendo al miracolo della vita. Whitman canta la gente, il contadino e la prostituta, canta ciascuno e rende la sua esperienza poetica universale.
Per chi ha bisogno di un messaggio di speranza, di ottimismo, di uno stimolo autentico per andare avanti con dignità, questo testo fa al suo caso. Buona lettura, buon godimento poetico.


Testo tradotto in lingua italiana
Oh me! Oh vita! Di queste domande che ricorrono,
degli infiniti cortei senza fede, di città piene di sciocchi,
di me stesso che sempre mi rimprovero (perché chi più sciocco
di me, e chi più senza fede?)
di occhi che invano bramano la luce, di meschini scopi,
della battaglia sempre rinnovata,
dei poveri risultati di tutto, della folla che vedo sordida
camminare a fatica attorno a me,
dei vuoti ed inutili anni degli altri, io con gli altri legato in tanti nodi,
a domanda, ahimè, la domanda così triste che ricorre: che cosa
c’è di buono in tutto questo, ahimè, ah vita?
Risposta:
che tu sei qui, che esiste la vita e l’identità,
che il potente spettacolo continua, e tu puoi contribuirvi
con un tuo verso.
Contribuisci bene, oh me! Oh vita!


Testo Originale

Oh me! O life! of the questions of these recurring,
Of the endless trains of the faithless, of cities filled with the foolish,
Of myself forever reproaching, (for who more foolish than I,
and who more faithless?)
Of eyes that vainly crave the light, of the objects mean,
of the struggle ever renewed,
Of the poor results of all,
of the plodding and sordid crowds I see around me,
Of the empty and useless years of the rest,
and with the rest me, intertwined,
Q: O me! so sad, recurring – what good amid these, O me O life?
A: That you are here – that life exists and identity,
That the powerful play goes on, and YOU may contribute a verse.
Contribute well, O me, O life.



venerdì 26 agosto 2016

I segni di punteggiatura? Servono per collegare e non per separare!

Le regole grammaticali sono tante, ma quelle che riguardano la punteggiatura, a leggere i testi qua e là, sembrano inesistenti.

Secondo molti, esistono solo alcune indicazioni precise, che spesso si ricordano "a memoria", come per esempio la regola che prescrive l'uso del punto quando si chiude un periodo (cioè l'insieme di una o più frasi), oppure il punto interrogativo alla fine di una domanda.
A parte alcune regole chiare, sembra quasi che, per il resto, la punteggiatura sia solo una questione discrezionale, di stile, di gusto personale. 

Nulla di più sbagliato: un simile atteggiamento provoca molta confusione e, del resto, anche molti errori, alcuni gravi. A volte se ne fa un uso eccessivamente scarno, omettendo i segni anche là dove sono necessari, altre volte se ne fa un uso eccessivo, esagerato, rendendo la lettura macchinosa e poco scorrevole.

Le regole di punteggiatura ci sono e sono chiare quanto basta; ciò vuol dire che abbiamo a disposizione tutto quello che ci serve per scrivere un testo chiaro, scorrevole  e piacevole. In più abbiamo molti margini di libertà per personalizzare il nostro particolare stile di scrittura, che meglio rispetti la nostra personalità e i nostri gusti.
Cosa vuoi di più?

Ebbene, il modo migliore per approcciare alla punteggiatura è rovesciare l'opinione che si ha su di essa (che in fondo corrisponde con ciò che ci hanno sempre insegnato fin dalla più tenera età nella scuola primaria) e cioè che la punteggiatura serve per creare delle pause, per separare frasi, parole, elenchi ... e così via.

Quante volte abbiamo sentito: "Con la virgola devi fare una pausa breve, con il punto una lunga". Detto così, sembra che siano la virgola e il punto stessi a creare una pausa, quando invece i punti, le virgole e tutti gli altri segni di punteggiatura non fanno altro che segnalare una pausa che già esiste nel significato! Esiste già nella realtà del parlato, nella lingua con cui comunichiamo tutti i giorni.

Potremmo dire che i segni di punteggiatura non separano alcunché, ma agganciano parole o periodi tra cui esiste già una pausa nel parlato.

In sintesi, quando leggiamo o scriviamo non dobbiamo fare una pausa in corrispondenza dei segni di punteggiatura perché li troviamo scritti sulla pagina, ma li troviamo scritti sulla pagina perché esistono già pause naturali nel parlato.

Basta un po' di attenzione per notare che, mentre parliamo, prima di cambiare discorso, facciamo una pausa piuttosto lunga. Quella pausa diventerà il punto fermo, cioè il classico punto che, attenzione, solo a volte ci obbliga ad andare a capo.

Può accadere anche che, sempre nel caso di una pausa lunga, anche se non si cambia discorso, potremmo dover utilizzare anche i "due punti" oppure il "punto e virgola" (vedremo altrove quali regole seguire).

Se invece non cambiamo discorso, ma prendiamo fiato senza spezzare frasi "a casaccio", allora avremo la virgola che, anche in questo caso, esiste già nella lingua parlata e noi l'abbiamo trasformata in un segno grafico per inserirla all'interno del testo.

Questo semplice concetto, anche se non è ancora sufficiente affinché si usi la punteggiatura correttamente, è già un buon punto di partenza.


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martedì 23 agosto 2016

Lavorare con le mappe: "Viaggio nel testo... orientarsi con le mappe", un libro di Franca Storace (e non solo)

Conosco solo virtualmente Franca Storace, una delle autrici di questo libro edito da LibriLiberi: Viaggio nel testo ... orientarsi con le mappe. Percorsi didattici inclusivi.
E' sufficiente osservare con attenzione la sua attività sul web, i contenuti proposti e la passione delle persone che con lei condividono il mestiere di insegnante, per dedurre la qualità del suo lavoro e, per la proprietà transitiva, il valore dei libri che contribuisce a scrivere.  
Sull'importanza dell'uso delle mappe, nei contesti di insegnamento e apprendimento, non c'è più alcun dubbio. I lavori di Buzan (per le mappe mentali) e di Novak (per le mappe concettuali) hanno aperto ancor più la strada a questo efficace strumento per visualizzare spazialmente e fissare logicamente contenuti in relazione tra loro. 
Il libro che in questo caso prendiamo in esame passa in rassegna le diverse possibilità di utilizzo delle mappe nel contesto scolastico.
Di seguito riportiamo la presentazione del libro presente sul sito della Casa Editrice. In fondo alla pagina c'è il link che rimanda al sito originale.
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Cosa sono le mappe? Qual è la differenza tra mappa concettuale e mappa mentale? A cosa servono? Chi deve realizzarle? Quali sono le regole di composizione?
Nel libro le autrici hanno cercato di rispondere a questi interrogativi, rivolgendosi a docenti di ogni ordine e grado di scuola, ad educatori, studenti, tutor e genitori per orientarli sull’uso efficace delle mappe come strumenti per l’apprendimento frutto di una rielaborazione concettuale di un argomento di studio.
Le mappe sono strumenti di organizzazione logica e visiva della conoscenza se inserite all’interno di percorsi incentrati sull’apprendimento significativo e sulla didattica della comprensione del testo con uno sguardo importante a quest’ultimo e alle sue complessità e difficoltà. Attraverso una pluralità di proposte operative, tratte da significative esperienze didattiche realmente sperimentate, sono stati indagati i molteplici usi delle mappe come supporto nell’osservazione sistematica, nella valutazione dei processi di apprendimento, nella diversificazione delle prove di verifica, nel supporto all’esposizione orale e alla scrittura di testi, nell’organizzazione e gestione di un percorso di ricerca, nel sostenere adeguatamente l’apprendimento degli alunni con BES e DSA anche nella valenza di strumenti compensativi.

sabato 20 agosto 2016

Cosa fa bene ad un bambino che non vuole regole (un video di Alberto Pellai)

Perché un bambino non vuole regole? In che modo far sì che si senta fiducioso verso le regole che gli vengono date?

Anche in questo caso il professor Alberto Pellai fornisce indicazioni utili dal canale youtube di quimamme.

Di seguito riportiamo un estratto del suo intervento, liberamente riadattato, e, in fondo, il video integrale.

La prima sfida è capire quali sono le regole di cui il bambino ha bisogno e quante riesce a "contenerne", cioè quante regole riesce a seguire senza andare in saturazione per eccesso di regole impartite.
Ovviamente quelle fondamentali di cui ha bisogno riguardano la sua autoprotezione (che gli servono per esplorare il mondo senza farsi male), e quelle che necessarie per gestire i momenti della giornata, come i pasti, la nanna, i momenti del gioco etc.

Come comunicare le regole?
"Io mi aspetto da te che tu faccia o non faccia questa cosa", è il modo più immediato. Ma proprio nel momento in cui va applicata la regola l'educatore deve ricordarla al bambino: "Ecco, adesso devi fare quello che dicevamo prima".
Ovviamente la migliore abitudine ad una regola è l'esempio, e quindi il bambino non dovrà mai vedere un adulto che fa il contrario di ciò che gli dice.
Fondamentale è anche il rinforzo: il bambino che avrà applicato la regola è bene che venga premiato, ed è anche utile farsi "reinsegnare" dal bambino quello che ha imparato: "Fammi vedere come si fa, perché tu sei più bravo!".

I bambini perfetti non esistono, quindi succede che non rispettino sempre le regole. Cosa fare?

Niente punizioni corporali, innanzitutto: queste fanno sentire l'adulto potente, ma non lo rendono competente.

Con pazienza serve una ricorsività della regola, attraverso cui ricordare al bambino cosa deve e non deve fare. A lungo andare la regola verrà interiorizzata, nella maggior parte dei casi.
In caso negativo, il bambino va accompagnato in uno spazio di riflessione, in un cantuccio in cui deve pensare a ciò che non è andato bene e al suo comportamento sbagliato. A quel punto l'adulto, dopo 5-10 minuti, dirà al bambino di venire fuori dal suo cantuccio e il piccolo deciderà se fare o no la cosa giusta. Questo serve per allontanarlo dal luogo in cui trasgrediva la regola e, in più, gli dà la possibilità di decidere quando iniziare ad applicarla, senza un'inutile coercizione. 
In questo modo, sempre o quasi sempre, i bambini saranno pronti ad allearsi con l'adulto per il rispetto della regola. 

Cliccando qui sarai ricondotto alla pagina dedicata agli 

interventi del prof. Alberto Pellai


giovedì 4 agosto 2016

Un film da vedere: "GIOCHI D’ESTATE", DI ROLANDO COLLA, consigliato da Alberto Pellai

Alberto Pellai, dalla sua pagina Facebook (che permette di citare e da cui consente di estrapolare contenuti), consiglia la visione di un film molto bello di Rolando Colla, "Giochi D'estate".
Chi meglio di uno psicologo-psicoterapeuta, nonché docente universitario e acuto divulgatore, che da anni si occupa di problemi educativi e questioni legate all'adolescenza può recensire i contenuti di questo film?
Consigliamo la lettura attenta di questa recensione e la sua visione.

C’è un film uscito qualche anno fa che racconta l’ingresso in adolescenza con una competenza e una verità davvero uniche. Non è stato molto distribuito nelle sale ma è disponibile su DVD (CG Entertainment) e lo consiglio ai genitori dei preadolescenti, in particolare a coloro che stanno vivendo una situazione famigliare complessa o che stanno attraversando il percorso della separazione proprio nel momento in cui i figli avrebbero maggior bisogno di stabilità e continuità all’interno della propria vicenda famigliare. Il film è stato girato da Rolando Colla nel 2011 (attenzione a non confonderlo con un polpettone estivo del 1984 che ha il medesimo titolo e che fu diretto d Bruno Cortini con Massimo Ciavarro come protagonista - e che è tutta un’altra cosa). E’ un film che può essere visto insieme ai figli preadolescenti (direi a partire dai 12 anni). La trama è “tipicamente estiva”. Nic, dodici anni, arriva con la sua famiglia, padre, madre e un fratello più piccolo, in un camping al mare in Toscana. Da subito si intuisce che la relazione tra i due genitori è parecchio conflittuale e il padre fatica a controllarsi quando è in preda alla gelosia e questo lo porta ad essere violento nei confronti della moglie. Il figlio più grande soffre di questo ma capisce di non poter competere con la forza irrazionale del padre e per questo sfoga la sua rabbia nella relazione con i pari. Il campeggio però diventa occasione per creare nuove amicizie, in particolare con Marie, una coetanea che rincorre il desiderio mai esaudito dalla madre di conoscere suo padre. I ragazzi, lasciati soli nelle loro domande dagli adulti, cercano nel gruppo un luogo dove “sentire” al massimo per sentirsi vivi, per mettersi alla prova. I giochi d’estate diventano sempre più estremi perché nessuno mette loro dei limiti e il rischio di superare la soglia del lecito diventa realtà. Ma in questa esperienza trasgressiva Nic trova il coraggio di fare giustizia a suo modo nei confronti del padre. Il film racconta la storia di un gruppo di preadolescenti che non hanno adulti capaci di far loro da guida e di sostenerli nel loro diventare grandi. I ragazzi solidarizzano tra loro e danno vita a un gruppo nel quale sperimentare la loro creatività,, spesso colludendo con la dimensione del rischio estremo e del pericolo. Tutte le loro curiosità, le loro paure, ma anche la loro rabbia, converge in giochi dove mettersi alla prova, sperimentare il dolore e sfidare la propria capacità di resistere a tutto. Gli adulti raccontati dal regista sono tutti, in diverso modo, affaticati dalla vita: la madre di Marie pensa che la figlia possa imparare a fare a meno del padre semplicemente seguendo il suo consiglio di smettere di pensare a lui. I genitori di Nic sono intrappolati in una dinamica perversa di vittima e carnefice dove i figlio sono spettatori di continue crisi violente e fuori controllo. I genitori all’apparenza ci sono, tentano anche di prendersi cura dei figli, ma sono in balia della loro irrisolutezza e soprattutto non sono consapevoli dei danni che stanno infliggendo con i loro comportamenti immaturi e irresponsabili. Del film colpisce soprattutto la capacità di raccontare le dinamiche tra pari: è come se una videocamera nascosta riprendesse scene di quotidianità di un gruppetto di ragazzini disorientati che ha bisogno di sentire di essere qualcosa per qualcuno. 
Un film che fa pensare e riflettere e che aiuta gli adulti a comprendere che cosa succede ai ragazzi quando nessuno ha la pazienza e la competenza di educarli al senso del limite, alla definizione e al rispetto dei confini. Al tempo stesso il film rivela la capacità che il gruppo dei pari ha di esporre chi cresce all’esperienza del rischio e della trasgressione, ma al tempo stesso di proteggere e di sostenere il disagio emotivo sofferto in famiglie irrisolte, dove regna il non detto e la regolazione emotiva degli adulti. Se l’avete visto, fornite anche voi il vostro commento. Altrimenti recuperatelo e raccontate poi che cosa ne pensate.


L'ARTICOLO è TRATTO DALLA PAGINA FACEBOOK DI ALBERTO PELLAI PER CONCESSIONE DELL'AUTORE.
LA PAGINA LA TROVI AL LINK RIPORTATO IN BASSO:
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mercoledì 3 agosto 2016

"Lettera ai giovani", di Roberto Baggio - Educare Narrando

Ricordo ancora nitidamente il gol a pochi minuti dalla fine della partita contro la Nigeria: era il mondiale del 1994, negli Stati Uniti. Solo più tardi, dopo anni, ho capito che uomo vi fosse dietro quel fuoriclasse dai piedi fatati. 
Il testo che segue è una testimonianza dell'interiorità di uno dei più grandi campioni che il calcio italiano abbia avuto. Concetti semplici, parole comuni, ma l'impressione è che questi pensieri vengano da un'interiorità adulta, solida, vissuta. Buona lettura.

A tutti i giovani e tra questi ci sono anche i miei tre figli.
Per vent’anni ho fatto il calciatore. Questo certamente non mi rende un maestro di vita ma ora mi piacerebbe occuparmi dei giovani, così preziosi e insostituibili. So che i giovani non amano i consigli, anch’io ero così. Io però, senza arroganza, stasera qualche consiglio lo vorrei dare. Vorrei invitare i giovani a riflettere su queste parole.
La prima è passione.
Non c’è vita senza passione e questa la potete cercare solo dentro di voi. Non date retta a chi vi vuole influenzare. La passione si può anche trasmettere. Guardatevi dentro e lì la troverete.
La seconda è gioia.
Quello che rende una vita riuscita è gioire di quello che si fa. Ricordo la gioia nel volto stanco di mio padre e nel sorriso di mia madre nel metterci tutti e dieci, la sera, intorno ad una tavola apparecchiata. E’ proprio dalla gioia che nasce quella sensazione di completezza di chi sta vivendo pienamente la propria vita.
La terza è coraggio.
E’ fondamentale essere coraggiosi e imparare a vivere credendo in voi stessi. Avere problemi o sbagliare è semplicemente una cosa naturale, è necessario non farsi sconfiggere. La cosa più importante è sentirsi soddisfatti sapendo di aver dato tutto, di aver fatto del proprio meglio, a modo vostro e secondo le vostre capacità. Guardate al futuro e avanzate.
La quarta è successo.
Se seguite gioia e passione, allora si può parlare anche del successo, di questa parola che sembra essere rimasta l’unico valore nella nostra società. Ma cosa vuol dire avere successo? Per me vuol dire realizzare nella vita ciò che si è, nel modo migliore. E questo vale sia per il calciatore, il falegname, l’agricoltore o il fornaio.
La quinta è sacrificio.
Ho subito da giovane incidenti alle ginocchia che mi hanno creato problemi e dolori per tutta la carriera. Sono riuscito a convivere e convivo con quei dolori grazie al sacrificio che, vi assicuro, non è una brutta parola. Il sacrificio è l’essenza della vita, la porta per capirne il significato. La giovinezza è il tempo della costruzione, per questo dovete allenarvi bene adesso. Da ciò dipenderà il vostro futuro. Per questo gli anni che state vivendo sono così importanti. Non credete a ciò che arriva senza sacrificio. Non fidatevi, è un’illusione. Lo sforzo e il duro lavoro costruiscono un ponte tra i sogni la realtà.
Per tutta la vita ho fatto in modo di rimanere il ragazzo che ero, che amava il calcio e andava a letto stringendo al petto un pallone. Oggi ho solo qualche capello bianco in più e tante vecchie cicatrici. Ma i miei sogni sono sempre gli stessi. Coloro che fanno sforzi continui sono sempre pieni di speranza. Abbracciate i vostri sogni e inseguiteli. Gli eroi quotidiani sono quelli che danno sempre il massimo nella vita.

Ed è proprio questo che auguro a Voi ed anche ai miei figli.

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lunedì 1 agosto 2016

"L'elefante incatenato", di Jorge Bucay - Educare Narrando

"Non posso", "non ce la faccio", "non è alla mia portata". "E' troppo difficile", "non ci riuscirò ma", "gli altri possono, io no". Sono frasi che il nostro cervello ci ripete, ma anziché guardarle come frasi, pensieri, finiamo per crederci.
 Di certo non sosteniamo le frasi-slogan dei trainers-coach, secondo i quali "non esistono limiti, l'unico limite siamo noi stessi", oppure "tu puoi fare tutto". Sciocchezze! Non possiamo fare tutto, siamo esseri umani limitati. Non ci è concessa l'onnipotenza. Ma possiamo fare molto, cominciando a liberarci da catene fittizie.
Buona lettura!

“Non posso” - gli dissi - “Non posso!”
“Ne sei sicuro?” - mi chiese lui.
“Sì, mi piacerebbe tanto sedermi davanti a lei e dirle quello che provo... Ma so che non posso farlo”.
Jorge si sedette come un Buddha su quelle orribili poltrone azzurre del suo studio. Sorrise, mi guardò negli occhie, abbassando la voce come faceva ogni volta che voleva essere ascoltato attentamente, mi disse:
“Ti racconto una storia...”.
E senza aspettare il mio assenso iniziò a raccontare:

 “Quando ero piccolo adoravo il circo, mi piacevano soprattutto gli animali. Ero attirato in particolar modo dall’elefante che, come scoprii più tardi, era l’animale preferito di tanti altri bambini. Durante lo spettacolo quel bestione faceva sfoggio di un peso, una dimensione e una forza davvero fuori dal comune… ma dopo il suo numero, e fino ad un momento prima di entrare in scena, l’elefante era sempre legato ad un paletto conficcato nel suolo, con una catena che gli imprigionava una delle zampe.
Eppure il paletto era un minuscolo pezzo di legno piantato nel terreno soltanto per pochi centimetri. E anche se la catena era grossa e forte, mi pareva ovvio che un animale in grado di sradicare un albero potesse liberarsi facilmente di quel paletto e fuggire.
Era davvero un bel mistero.
Che cosa lo teneva legato, allora?
Perchè non scappava?
Quando avevo cinque o sei anni nutrivo ancora fiducia nella saggezza dei grandi. Allora chiesi a un maestro, a un padre o a uno zio di risolvere il mistero dell'elefante. Qualcuno di loro mi spiegò che l’elefante non scappava perchè era ammaestrato. Allora posi la domanda ovvia: “Se è ammaestrato, perchè lo incatenano?”. Non ricordo di aver ricevuto nessuna risposta coerente.
Con il passare del tempo dimenticai il mistero dell’elefante e del paletto e ci pensavo soltanto quando mi imbattevo in altre persone che si erano poste la stessa domanda.
Per mia fortuna, qualche anno fa ho scoperto che qualcuno era stato abbastanza saggio da trovare la risposta giusta:

l’elefante del circo non scappa perchè è stato legato a un paletto simile fin da quando era molto, molto piccolo.

Chiusi gli occhi e immaginai l’elefantino indifeso appena nato, legato al paletto. Sono sicuro che, in quel momento, l'elefantino provò a spingere, a tirare e sudava nel tentativo di liberarsi. Ma nonostante gli sforzi non ci riusciva perchè quel paletto era troppo saldo per lui.
Lo vedevo addormentarsi sfinito e il giorno dopo provarci di nuovo e così il giorno dopo e quello dopo ancora...
Finchè un giorno, un giorno terribile per la sua storia, l'animale accettò l'impotenza rassegnandosi al proprio destino. L’elefante enorme e possente che vediamo al circo non scappa perchè, poveretto, crede di non poterlo fare. Reca impresso il ricordo dell'impotenza sperimentata subito dopo la nascita.
E il brutto è che non è mai più ritornato seriamente su quel ricordo.
E non ha mai più messo alla prova la sua forza, mai più...”

“Proprio così, Demiàn. Siamo un po' tutti come l'elefante del circo: andiamo in giro incatenati a centinaia di paletti che ci tolgono la libertà.
Viviamo pensando che “non possiamo” fare un sacco di cose semplicemente perchè una volta, quando eravamo piccoli, ci avevamo provato ed avevamo fallito.
Allora abbiamo fatto come l'elefante, abbiamo inciso nella memoria questo messaggio: non posso, non posso e non potrò mai.
Siamo cresciuti portandoci dietro il messaggio che ci siamo trasmessi da soli, perciò non proviamo più a liberarci del paletto.
Quando a volte sentiamo la stretta dei ceppie facciamo cigolare le catene, guardiamo con la coda dell'occhio il paletto e pensiamo:
non posso, non posso e non potrò mai”.
Jorge fece una lunga pausa. Quindi si avvicinò, si sedette sul pavimento davanti a me e proseguì:
“E' quello che succede anche a te, Demiàn. Vivi condizionato dal ricordo di un  Demiàn che non esiste più e che non ce l'aveva fatta.
L’unico modo per sapere se puoi farcela è provare di nuovo mettendoci tutto il cuore… tutto il tuo cuore!”

Jorge Bucay, “Lascia che ti racconti. Storie per imparare a vivere”

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